La “disumanità” come espediente narrativo nel post apocalittico

Perché il genere survival funziona così bene?

 

Ormai sono decine di anni a cui siamo stati abituati, sia per i fumetti che per i romanzi, oltre che per il cinema, al genere post apocalittico o, in ogni caso, incentrato sul concetto di “muori o sopravvivi!”. Ovvero, il cosiddetto “survival” nato con “Battle Royale”. Come non citare il ben scritto “Hanger Games”, della grande Suzanne Collins, oppure “The Walking Dead” per il mondo del fumetto e della fiction di Robert Kirkman. Ma non possiamo non menzionare anche lo splendido e recente “Squid Game” di Hwang Dong-hyuk. Poi esistono capolavori come “The Road“, trasposizione piuttosto fedele del romanzo “La starda” di Cormac McCarthy. Ma, volendo, si potrebbero citare altre centinaia di opere di questo genere, anche in campo videoludico, come “The Last of Us” della Naughty Dog.

Ciò che ci interessa sono due cose: perché questo genere di opere ha sempre più successo? E qual è il vero tema portante che accumuna tutte queste storie?

 

Vivere o sopravvivere? Cioè, scegliere tra ‘disumano’ o ‘umano’?

post apocalittico

Nonostante lo scontro tra Rick e Nigan sia stato una parte interessante della serie, non fa altro che ripetere ciò che abbiamo già visto nello scontro con il Governatore

Un argomento di cui ho sempre scritto, come nell’articolo “The Walking Dead”: Il senso della vita, dove l’opera di Kirkman e Frank Darabont – per il telefilm – raggiunge il suo massimo potenziale a livello narrativo con il sacrificio del personaggio Hershel Greene, che sceglie di sacrificarsi per il bene comune piuttosto che continuare a sopravvivere a tutti i costi. Infatti, non a caso, da quel momento la serie andrà, narrativamente parlando, a ripetersi e snaturarsi sempre più, perdendo molto del suo fascino e dei messaggi fino a quel momento esaltatati dalla prima parte della storia. Tuttavia, dato il successo di TWD, si fa continuare la serie per un discorso puramente venale…

Perché qual è il punto in questo genere di opere?

Il conflitto a cui un po’ tutti personaggi sono chiamati in causa è sempre il medesimo: sopravvivere, perdendo se stessi, oppure vivere fino al costo di perdere la vita, ma restando “umani”. Perché che senso ha continuare a vivere se ci si trasforma in quei mostri che noi stessi temiamo? Ovviamente, oltre questo conflitto che sta alla base del genere, ce ne possono essere aggiunti altri, come quelli sentimentali visti in “Hanger Games”, dove viene esaltata la nobiltà d’animo del personaggio di Peeta che vuole essere corrisposto dalla fredda Katniss, o quelli esistenziali, se non addirittura religiosi, presenti in “The Road”. In quest’ultimo addirittura si chiama in causa un conflitto molto più grande: si può vivere la vocazione del padre in un inferno in terra? E si può continuare a credere in Dio o sperare nel bene nonostante il mondo sia divenuto un incubo da cui sembra non esserci più via d’uscita? Conflitti davvero di grande portata, gestiti in modo magistrale in queste di opere il cui successo è enorme.

 

Tuttavia, è relativamente facile far funzionare un survival per una ragione ancora più semplice: la tensione del protagonista, che rischia di morire in qualsiasi istante, genere adrenalina nello spettatore e lo tiene incollato allo schermo come in una sorta di dipendeza. Ecco svelato il segreto per cui siamo letteralmente invasi da opere di questo genere, soprattutto se a base di zombie. Ma questo di per sé non è necessariamente un difetto se non ci si dimentica che ciò che pià conta è il conflitto del protagonista, che non deve ridursi alla sola sopravvivenza. E qui, grazie a Dio, ogni tanto vengono prodotte opere che mostrano cosa si può fare con questo genere se chi scrive ha un minimo di spessore umano.

 

Come non menzionare anche il conflitto vissuto dal personaggio di Seong Gi-hun in “Squid Game”, che da fallito incapace di ogni responsabilità, sceglierà una via estremamente dolorosa che lo trasformerà nell’esatto opposto di coloro che mettono al primo posto il proprio benessere e/o la propria sopravvivenza. Tema, se ci pensate, molto attuale con il problema che stiamo ancora vivendo nella crisi sia economica che sociale del covid-19. Pertanto, non dubitate di questo, torneremo a parlare di “Squid Game“, spiegandovi le ragioni del suo enorme successo e del suo così alto livello di contenuti.

 

Ma esiste davvero la “disumanità”?

Post apocalittico: Squid Game

Squid Game” non è un post apocalittico, ma più un survival o battle royale puro, eppure estremizza al massimo tutti gli elementi narrativi a cui ci ha abituato questo genere. Per quanto ben fatto, sappiatelo, merita ★★★★★!

Senza entrare in discorsi troppo filosofici, in realtà la cosiddetta disumanità è un concetto erroneo. In quanto, al di là delle convinzioni personali, l’uomo è anche un animale dove l’istinto di sopravvivenza, dovuto al nostro retaggio bestiale, ci induce a comportamenti definiti impropiamente “inumani”. Ma che sarebbe più corretto definire al massimo immorali…. o moralmente discutibili! È proprio la dualità presente nella natura umana che permette conflitti così forti in opere di genere post apocalittico e non. Ognuno di noi è, così, libero di poter scegliere se aderire alla natura istintuale e prevaricatrice dell’uomo o a quella nobile suggerita da giganti della letteratura come il grande Dante Alighieri:

Dante Alighieri: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.” (Inferno, Canto XXVI, versi 119-120)

Tuttavia, è bene ripeterlo, la disumanità non esiste! L’uomo, piaccia o no, è capace sia di brutalità che di amore gratuito. Poi, ovviamente, ogni essere umano, nella sua unicità dell’essere, ha una propensione più o meno forte verso una di queste due direzioni. Ma questo, almeno tra gli esperti di narrativa, è un concetto ben chiaro, usato come espediente per amplificare i conflitti vissuti dai personaggi. Potenziando al massimo questo combattimento interiore dell’uomo, una storia può essere enormemente più efficace nell’esporre il Viaggio dell’Eroe dei protagonisti.

 

Conclusione

 

Per il genere post apocalittico e/o survival, ma ciò vale in qualche misura per ogni altro possibile genere letterario, il conflitto dove il protagonista è chiamato a scegliere la propria “disumanità”, cioè la brutalità di cui noi tutti siamo capaci, o l’“umanità”, intesa come la parte migliore della nostra anima, è da sempre un espediente riuscito e ben collaudato per amplificare moltissimo il tema portante della storia. A questo si aggiungono molti altri fattori, come l’effetto suspense tipico dei survival, che rendono sempre di più questi generi narrativi di grande impatto e successo per il grande pubblico, permettendo di aggiungere argomenti di alto spessore umano che sempre più di rado troviamo così ben scritti in altri generi meno estremi.

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